Spesso, di fronte ad una persona che si trova in una condizione di malattia, di qualunque natura essa sia, non ci è facile capire perché il suo comportamento sia così diverso dal solito o, di contro, così esageratamente incurante. A chiunque è capitato di avere a che fare sia con la persona che se malata si comporta come se gli stesse cascando il mondo addosso anche in presenza di una banale influenza, sia con quella che nonostante la malattia si comporta come niente fosse uscendo di casa e svolgendo le normali attività anche con la febbre. Cerchiamo di capire cosa succede alla persona quando si trova in queste situazioni e quali sono i meccanismi che scattano inconsciamente. Innanzi tutto parliamo in generale della malattia. La possiamo considerare come una situazione di alterazione delle normali funzioni della persona, che si manifesta attraverso segni caratteristici particolari: i sintomi. Ciò che caratterizza la malattia è il fatto che si viene a costituire una situazione in cui, colui che ne è colpito, non può esprimersi con il suo abituale grado di autonomia né espletare i suoi impegni consueti. Comunemente, in quasi tutti i soggetti malati, si nota un accentuato interesse per le proprie funzioni fisiologiche e per i propri stati d’animo, un certo distacco nei confronti dei fatti esterni, un maggior “egocentrismo” e un bisogno di maggior vicinanza affettiva e di solidarietà da parte dell’ambiente. Volendo approfondire il vissuto della malattia, dobbiamo innanzitutto tener presente che esso dipende chiaramente dalla gravità della malattia, dall’equilibrio psicologico di ciascun soggetto ed infine dai fattori ambientali, quali per esempio la capacità della famiglia e dell’organizzazione sanitaria di rispondere in modo adeguato alle esigenze del malato. Vorremmo ancora ribadire, anche se qui ci riferiamo esplicitamente a malattie somatiche, che esse, come qualsiasi altra esperienza umana, hanno concomitanze psicologiche da cui è impossibile prescindere. Una prima dinamica psicologica sperimentata dal malato è vivere la malattia come minaccia, cioè aggressione, spesso percepita come proveniente dal proprio interno e che potenzialmente lede la rappresentazione mentale che l’individuo ha di se stesso. La cultura ancora prevalente, soprattutto nel campo dell’assistenza sanitaria, accentua questo senso di minaccia alla propria identità perché induce facilmente un senso di scissione fra psiche e soma, nel senso che il malato avverte una notevole attenzione rivolta al suo corpo, mentre scarsa è la considerazione dei suoi risvolti psicologici. Questo si manifesta non solo nella trascuratezza degli aspetti che stiamo trattando, nel disinteresse per i bisogni del malato non legati strettamente alla malattia organica, ma anche nell’atteggiamento degli operatori sanitari che per lo più non responsabilizzano il malato e che, anche quando dicono di volerne la collaborazione, in realtà richiedono fin troppo spesso una mera esecuzione delle loro indicazioni e richieste. Tutto questo attiva in modo automatico ed inconscio, anche se con modalità sempre strettamente individuali, delle reazioni particolari che sollevano, per quanto possibile, il malato dall’ansia, dal senso di frustrazione e da tutte le sensazioni spiacevoli derivate dalla minaccia alla propria identità. Queste reazioni specifiche si chiamano meccanismi di difesa, tra i quali tre riguardano con maggiore frequenza la situazione della malattia. 1. la regressione. Lo stato di dipendenza reale dagli altri e la conseguente perdita dell’autonomia personale inducono richieste di tipo affettivo e comportamenti che sarebbero”normali” in età “cronologiche” precedenti, soprattutto infantili o adolescenziali. Esempi di questo atteggiamento “regressivo” si hanno nell’accentuare sproporzionalmente i propri disturbi o in costanti lamentele immotivate sull’alimentazione, sull’asserita incapacità di compiere azioni che invece il malato sarebbe in grado di eseguire, come ricordarsi di rimanere digiuno quando sa di dover sottoporsi a determinati accertamenti clinici, sull’insufficiente frequenza di visite di familiari ed amici quando note condizioni di orario o di lavoro lo impediscono. 2. la formazione reattiva. Con questo meccanismo di difesa, meno frequente del precedente e che subentra in patologie che presentano tempi medio-lunghi oppure in episodi di malattia che ricorrono con frequenza, il malato vive un senso di “persecuzione” da parte di forze esterne (il destino, gli operatori sanitari e a volte gli stessi familiari cui si imputa mancanza di attenzione come causa delle ricadute), per cui tende a difendersi con un comportamento che è, nella fenomenologia, aggressivo. In altri termini il malato “passa al contrattacco” divenendo a sua volta, in senso simbolico, un aggressore. Esempi di questo meccanismo di difesa sono il bisogno di imprecare o bestemmiare (non come fatto episodico legato magari ad un momento di stress troppo intenso, ma come fatto ripetitivo ed ingiustificato); notificare, di solito in modo eccessivamente arrogante, agli operatori sanitari le mancanze di premura o di attenzione dei familiari; denunciare senza reale fondamento l’organizzazione sanitaria e, solitamente in modo minaccioso-rivendicativo, presunte carenze di professionalità soprattutto dei medici cui si è stati affidati; ricercare spasmodicamente consulenti sempre più qualificati e in qualche modo capaci, secondo il malato, di “rendergli giustizia” dei danni che ritiene di subire. 3. la negazione. Quest’ultimo meccanismo di difesa lo si può riscontrare soprattutto in soggetti affetti da malattie gravi (patologie invalidanti o croniche) oppure in persone particolarmente legate ad un’immagine efficiente di sé ed impreparate alla frustrazione derivante dalla modifica di questa immagine, in seguito alla malattia. La negazione può essere parziale o totale. Nel primo caso, il malato accetta globalmente di dover modificare la propria immagine di sé ma si prende alcune zone franche, cioè in pratica agisce come se determinate azioni, che pure riguardano la sua situazione di malattia, non avessero alcuna incidenza sulla sua vita e sulla sua identità. Possiamo pensare ad un malato di diabete mellito che “nega” in pratica una parte di questa sua realtà, assumendo la terapia prescritta ma consumando regolarmente alimenti dolci. Talora questa forma di negazione parziale si può osservare in modifiche arbitrarie della terapia o delle indicazioni di igiene di vita prescritte. La negazione totale si ha invece quando l’intera realtà della malattia è rifiutata. Si pensi ad una persona cui è stata diagnosticata un’epilessia e che rifiuta ogni provvedimento terapeutico ed ogni cautela, oppure ad un malato cardiaco che, anche dopo la diagnosi, continua a condurre ritmi di vita troppo intensi, rifiutando inoltre di controllarsi regolarmente. Si tratta naturalmente di reazioni inconsce e quindi la persona che le attua non ne è appieno responsabile e non ha deciso coscientemente di comportarsi in un determinato modo. In alcuni casi, oltre ai meccanismi di difesa già esposti, vengono espresse altre modalità comportamentali che hanno la stessa funzione di allontanare l’ansia e l’angoscia derivanti da una condizione di malattia e inabilità. Si tratta della razionalizzazione degli eventi inerenti la malattia e l’attuazione di riti ossessivi. Annalisa Avancini |